Guidebook for Sulmona - Natura - Arte - Cultura

Alberto
Guidebook for Sulmona - Natura - Arte - Cultura

Parks & Nature

Fondato nel 1293 da papa Celestino V, che lo dedicò all’eremita Sant’Onofrio, è collocato Morrone a 600 m di altezza su una ripida parete di roccia che affaccia sulla conca Peligna, ma è facilmente raggiungibile attraverso un sentiero percorribile a piedi in circa 20 minuti. Luogo aspro e solitario il Santo, di ritorno dalle solitudini dell’Orfento nel 1293, trascorse poco più di un anno finché gli annunciarono la sua elezione a pontefice. Tornò qui anche dopo la rinuncia al papato, ma solo per un brevissimo periodo fino al febbraio del 1295, prima della sua fuga.
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Hermitage of Sant'Onofrio al Morrone
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Fondato nel 1293 da papa Celestino V, che lo dedicò all’eremita Sant’Onofrio, è collocato Morrone a 600 m di altezza su una ripida parete di roccia che affaccia sulla conca Peligna, ma è facilmente raggiungibile attraverso un sentiero percorribile a piedi in circa 20 minuti. Luogo aspro e solitario il Santo, di ritorno dalle solitudini dell’Orfento nel 1293, trascorse poco più di un anno finché gli annunciarono la sua elezione a pontefice. Tornò qui anche dopo la rinuncia al papato, ma solo per un brevissimo periodo fino al febbraio del 1295, prima della sua fuga.
Un Parco di Montagna Madre d’Abruzzo nella parte più impervia e selvaggia dell'Appennino Centrale. Il Parco del Lupo, dell'Orso, dei vasti pianori d'alta quota e dei canyons selvaggi e imponenti, ma anche il Parco degli Eremi, delle Abbazie, delle capanne in pietra a secco, dei meravigliosi centri storici dei Comuni che ne fanno parte. Inoltre: Parco Nazionale della Majella, Parco Nazionale d'Abruzzo, Parco Regionale del Sirente, Parco Nazionale Gran Sasso-Monti della Laga, Riserva naturale Monte Genzana - Alto Gizio, Riserva naturale Gole di San Venanzio, Riserva naturale Bosco Sant'Antonio, Riserva naturale "Sorgenti del Pescara", Riserva naturale del Lago di Penne, Gole del Sagittario
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Majella National Park
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Un Parco di Montagna Madre d’Abruzzo nella parte più impervia e selvaggia dell'Appennino Centrale. Il Parco del Lupo, dell'Orso, dei vasti pianori d'alta quota e dei canyons selvaggi e imponenti, ma anche il Parco degli Eremi, delle Abbazie, delle capanne in pietra a secco, dei meravigliosi centri storici dei Comuni che ne fanno parte. Inoltre: Parco Nazionale della Majella, Parco Nazionale d'Abruzzo, Parco Regionale del Sirente, Parco Nazionale Gran Sasso-Monti della Laga, Riserva naturale Monte Genzana - Alto Gizio, Riserva naturale Gole di San Venanzio, Riserva naturale Bosco Sant'Antonio, Riserva naturale "Sorgenti del Pescara", Riserva naturale del Lago di Penne, Gole del Sagittario
Il Monte Amaro di Opi non è una cima molto alta (1862 m), ma è senza dubbio il portabandiera del Parco. Dalla cresta ariosa e dalla sua cima slanciata si gode un superbo panorama sugli incontaminati boschi circostanti, sulla verdissima e selvaggia Val Fondillo e su tutte le cime intorno, le guglie rocciose della Camosciara, la mole massiccia del Monte Marsicano, le vallate verso il Lago di Barrea e Pescasseroli, i circhi glaciali della Serra delle Gravare... e nelle giornate più limpide anche la Majella e il Velino! L'escursione permette di immergersi in una natura superba, e di incontrare quasi sempre i veri padroni della montagna, i camosci appenninici che stazionano spesso sulle creste del Monte Amaro o al limitare del bosco. Impareremo a conoscere questo magnifico signore delle rocce, che ha rischiato l'estinzione e finalmente oggi è stato dichiarato fuori pericolo (sono ormai quasi 2000 i camosci appenninici e diffusi in cinque regioni). Come fa a correre come se nulla fosse sui dirupi rocciosi più ripidi? Come fa a superare l'inverno? Come misura la sua forza?... le curiosità sono tante... ma lasciamo la parola al poeta. “A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro. Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei, lontano dal suo corpo abbattuto. D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.
Monte Amaro
Il Monte Amaro di Opi non è una cima molto alta (1862 m), ma è senza dubbio il portabandiera del Parco. Dalla cresta ariosa e dalla sua cima slanciata si gode un superbo panorama sugli incontaminati boschi circostanti, sulla verdissima e selvaggia Val Fondillo e su tutte le cime intorno, le guglie rocciose della Camosciara, la mole massiccia del Monte Marsicano, le vallate verso il Lago di Barrea e Pescasseroli, i circhi glaciali della Serra delle Gravare... e nelle giornate più limpide anche la Majella e il Velino! L'escursione permette di immergersi in una natura superba, e di incontrare quasi sempre i veri padroni della montagna, i camosci appenninici che stazionano spesso sulle creste del Monte Amaro o al limitare del bosco. Impareremo a conoscere questo magnifico signore delle rocce, che ha rischiato l'estinzione e finalmente oggi è stato dichiarato fuori pericolo (sono ormai quasi 2000 i camosci appenninici e diffusi in cinque regioni). Come fa a correre come se nulla fosse sui dirupi rocciosi più ripidi? Come fa a superare l'inverno? Come misura la sua forza?... le curiosità sono tante... ma lasciamo la parola al poeta. “A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro. Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei, lontano dal suo corpo abbattuto. D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.
Il Parco, localizzato nel cuore dell'Appennino, si estende sul territorio di tre regioni: l'Abruzzo, il Lazio e le Marche, comprendendo nel suo perimetro cinque province: L'Aquila, Teramo, Pescara, Rieti ed Ascoli Piceno, e ben 44 comuni. E' un territorio cerniera tra la regione euro-siberiana e quella mediterranea, in cui si localizza la montagna più elevata dell'Appennino che racchiude l'unico ghiacciaio dell'Europa meridionale. La posizione geografica, l'altezza raggiunta dalle montagne, nonché la differente geologia dei rilievi: calcari e dolomie sul Gran Sasso e sui Monti Gemelli, arenarie e marne sui Monti della Laga, determinano una straordinaria ricchezza di specie animali e vegetali, nonché una varietà di ecosistemi e paesaggi davvero unica.
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Parco Nazionale Del Gran Sasso E Monti Della Laga
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Il Parco, localizzato nel cuore dell'Appennino, si estende sul territorio di tre regioni: l'Abruzzo, il Lazio e le Marche, comprendendo nel suo perimetro cinque province: L'Aquila, Teramo, Pescara, Rieti ed Ascoli Piceno, e ben 44 comuni. E' un territorio cerniera tra la regione euro-siberiana e quella mediterranea, in cui si localizza la montagna più elevata dell'Appennino che racchiude l'unico ghiacciaio dell'Europa meridionale. La posizione geografica, l'altezza raggiunta dalle montagne, nonché la differente geologia dei rilievi: calcari e dolomie sul Gran Sasso e sui Monti Gemelli, arenarie e marne sui Monti della Laga, determinano una straordinaria ricchezza di specie animali e vegetali, nonché una varietà di ecosistemi e paesaggi davvero unica.
Sulmona - La salita al Monte Amaro è molto impegnativa, da qualunque versante la si affronti, e spesso finisce per diventare un viaggio interiore, quasi un sacro cammino fino la vetta più alta della Montagna Madre degli abruzzesi. Sono in molti a cimentarsi nell’impresa, perché l’ambiente lunare degli altipiani culminali, trapunti di cuscinetti fioriti, è unico e affascinante. Per godersi in pieno e con la giusta calma questa “mistica” avventura, affronteremo l’itinerario partendo la sera prima e percorrendo l'andata in notturna, ma con la luce argentata della luna a illuminarci la via. La partenza è fissata nella tarda serata, con l'obiettivo di raggiungere la meta poco prima dell'alba. Dal Bivacco Pelino, posto sulla vetta del Monte Amaro (2793 m), si assiste allo spettacolo dell'alba sul mare... sarà un momento magico e indimenticabile. L’itinerario è quello più classico e tra i più suggestivi per la varietà e la bellezza dei panorami, sempre molto aerei: partenza dal Rifugio Pomilio (1980 m), Blockhaus, Scrima Cavallo, fontanino della Sella Acquaviva (ultimo rifornimento possibile), Bivacco Fusco, Monte Focalone (2676 m), la cresta dei Tre Portoni fino alla vetta del Monte Amaro (2793 m, seconda vetta dell’Appennino). Il ritorno avviene per la stessa via (con qualche deviazione), un mondo tutto diverso sotto i raggi del sole! Dal Monte Amaro la vista spazia su tutte le vette del massiccio, sull'infinita Valle di Femmina Morta, e poi sugli altri gruppi montuosi abruzzesi, fino ai Monti della Meta, e verso l’Adriatico... nelle giornata più limpide si riesce a scorgere il Monte Conero a nord e le Isole Tremiti a sud! Il percorso proposto, con i suoi numerosi saliscendi, è impegnativo, e quindi richiede un buon livello di allenamento. Ma non fatevi spaventare, il nostro sarà il cammino lento... dell’innamorato che si attarda con la sua amata.
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Majella National Park
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Sulmona - La salita al Monte Amaro è molto impegnativa, da qualunque versante la si affronti, e spesso finisce per diventare un viaggio interiore, quasi un sacro cammino fino la vetta più alta della Montagna Madre degli abruzzesi. Sono in molti a cimentarsi nell’impresa, perché l’ambiente lunare degli altipiani culminali, trapunti di cuscinetti fioriti, è unico e affascinante. Per godersi in pieno e con la giusta calma questa “mistica” avventura, affronteremo l’itinerario partendo la sera prima e percorrendo l'andata in notturna, ma con la luce argentata della luna a illuminarci la via. La partenza è fissata nella tarda serata, con l'obiettivo di raggiungere la meta poco prima dell'alba. Dal Bivacco Pelino, posto sulla vetta del Monte Amaro (2793 m), si assiste allo spettacolo dell'alba sul mare... sarà un momento magico e indimenticabile. L’itinerario è quello più classico e tra i più suggestivi per la varietà e la bellezza dei panorami, sempre molto aerei: partenza dal Rifugio Pomilio (1980 m), Blockhaus, Scrima Cavallo, fontanino della Sella Acquaviva (ultimo rifornimento possibile), Bivacco Fusco, Monte Focalone (2676 m), la cresta dei Tre Portoni fino alla vetta del Monte Amaro (2793 m, seconda vetta dell’Appennino). Il ritorno avviene per la stessa via (con qualche deviazione), un mondo tutto diverso sotto i raggi del sole! Dal Monte Amaro la vista spazia su tutte le vette del massiccio, sull'infinita Valle di Femmina Morta, e poi sugli altri gruppi montuosi abruzzesi, fino ai Monti della Meta, e verso l’Adriatico... nelle giornata più limpide si riesce a scorgere il Monte Conero a nord e le Isole Tremiti a sud! Il percorso proposto, con i suoi numerosi saliscendi, è impegnativo, e quindi richiede un buon livello di allenamento. Ma non fatevi spaventare, il nostro sarà il cammino lento... dell’innamorato che si attarda con la sua amata.
Tra Cervi e camosci, nel cuore dello storico Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise, con base a Civitella Alfedena... la tana dei lupi! A Scanno, perla dell'Abruzzo montano... sulle orme di Escher! Sul sentiero del cuore. Emozionante trekking nel cuore del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise... nella stagione degli amori dei cervi. Sulla cresta dei camosci, nel cuore del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. Porta il binocolo!
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National Park of Abruzzo
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Tra Cervi e camosci, nel cuore dello storico Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise, con base a Civitella Alfedena... la tana dei lupi! A Scanno, perla dell'Abruzzo montano... sulle orme di Escher! Sul sentiero del cuore. Emozionante trekking nel cuore del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise... nella stagione degli amori dei cervi. Sulla cresta dei camosci, nel cuore del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. Porta il binocolo!
Il Parco Regionale Sirente Velino si caratterizza per ospitare diversi tipi di ambienti, dall'ambiente montano a quello di media montagna, dal paesaggio collinare a quello fluviale, passando dai 2.300 metri ai 600 metri di altitudine. Ogni tipo di ambiente ospita un particolare tipo di fauna e di vegetazione. Al momento, nel Parco risultano censite 1.926 entità floristiche; 216 Specie Vertebrati; 149 Uccelli; 43 Mammiferi; 13 Rettili; 11 Anfibi. Dal punto di vista morfologico, il territorio del Parco si presenta distribuito in tre ampi settori, ciascuno caratterizzato da particolari aspetti. L'Altopiano delle Rocche, il sistema centrale degli altopiani di origine carsica che si estendono con brevi dislivelli e la cui morfologia e conformazione geologica testimonia anche la presenza di antichi ghiacciai. Boschi di faggio, pascoli e prati, rivestiti in primavera dalle fioriture di narciso, caratterizzano l'altopiano; pareti verticali, imponenti e dolomitiche, connotano i profondi canaloni che solcano il Monte Sirente. La Marsica settentrionale, il versante sudovest del Sirente e del Massiccio del Velino appare nudo e brullo, caratterizzato da diffusi affioramenti rocciosi. Il territorio è solcato da profonde incisioni di origine glaciale, come le Gole di Celano, la Val di Teve e la Valle Majelama (è aperta agli escursionisti dal 15 Agosto al 15 Febbraio), che custodiscono immutati luoghi impervi e segreti, ricchi di specie floristiche rare ed endemiche. La Valle dell'Aterno e la Valle Subequana, dove la fa da padrone il fiume Aterno, il corso d'acqua che scorre in una stretta valle fluviale caratterizzata da una straordinaria presenza di beni storici, artistici, architettonici e archeologici. Lungo l'Aterno il paesaggio fluviale si presenta a tratti sovrapposto a quello agricolo; tra Beffi e Acciano il corso d'acqua scorre tra pareti rocciose impervie; popolamenti di pioppo nero e salici, caratterizzano le sponde fluviali.
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Sirente-Velino Regional Park
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Il Parco Regionale Sirente Velino si caratterizza per ospitare diversi tipi di ambienti, dall'ambiente montano a quello di media montagna, dal paesaggio collinare a quello fluviale, passando dai 2.300 metri ai 600 metri di altitudine. Ogni tipo di ambiente ospita un particolare tipo di fauna e di vegetazione. Al momento, nel Parco risultano censite 1.926 entità floristiche; 216 Specie Vertebrati; 149 Uccelli; 43 Mammiferi; 13 Rettili; 11 Anfibi. Dal punto di vista morfologico, il territorio del Parco si presenta distribuito in tre ampi settori, ciascuno caratterizzato da particolari aspetti. L'Altopiano delle Rocche, il sistema centrale degli altopiani di origine carsica che si estendono con brevi dislivelli e la cui morfologia e conformazione geologica testimonia anche la presenza di antichi ghiacciai. Boschi di faggio, pascoli e prati, rivestiti in primavera dalle fioriture di narciso, caratterizzano l'altopiano; pareti verticali, imponenti e dolomitiche, connotano i profondi canaloni che solcano il Monte Sirente. La Marsica settentrionale, il versante sudovest del Sirente e del Massiccio del Velino appare nudo e brullo, caratterizzato da diffusi affioramenti rocciosi. Il territorio è solcato da profonde incisioni di origine glaciale, come le Gole di Celano, la Val di Teve e la Valle Majelama (è aperta agli escursionisti dal 15 Agosto al 15 Febbraio), che custodiscono immutati luoghi impervi e segreti, ricchi di specie floristiche rare ed endemiche. La Valle dell'Aterno e la Valle Subequana, dove la fa da padrone il fiume Aterno, il corso d'acqua che scorre in una stretta valle fluviale caratterizzata da una straordinaria presenza di beni storici, artistici, architettonici e archeologici. Lungo l'Aterno il paesaggio fluviale si presenta a tratti sovrapposto a quello agricolo; tra Beffi e Acciano il corso d'acqua scorre tra pareti rocciose impervie; popolamenti di pioppo nero e salici, caratterizzano le sponde fluviali.
In bilico sulla super panoramica cresta che affaccia sui tetti di Castrovalva e le Gole del Sagittario. Castrovalva cresta nel classico itinerario alle Gole del Sagittario si parte da Anversa degli Abruzzi e si sale fino a Castrovalva, nido d'aquila che domina dall'alto la lunga cresta del Colle San Michele. Stavolta l'itinerario prende il via da Castrovalva e sale per la ripida e super panoramica cresta del Monte Sant'Angelo... in volo sui tetti del piccolo borgo arroccato, sulle Gole del Sagittario e sulle dirimpettaie pareti del Pizzo Marcello e del Monte Mezzana. Passo dopo passo si inerpica su per la ripida cresta, ora erbosa, ora rocciosa, ora boscosa (fino ai 1283 m della vetta del Monte Sant'Angelo), e la percorre interamente, di balza in balza, fino a raggiungere i verdissimi pascoli di Prata di Castro, dove intercetta l'ampia traccia del tratturo e riscende al borgo, chiudendo l'anello. La cresta regala il punto di vista delle aquile... c'è anche la possibilità (ed è già successo), che le aquile reali vengano per davvero a farci compagnia! In più siamo in piena stagione degli amori dei cervi... nell'aria risuoneranno possenti i loro bramiti. Per gli ampi e ariosi affacci dalla ripida cresta e per le caratteristiche del sentiero (un po' avventuroso), l'escursione è sconsigliata a chi soffre di vertigini.
Castrovalva
In bilico sulla super panoramica cresta che affaccia sui tetti di Castrovalva e le Gole del Sagittario. Castrovalva cresta nel classico itinerario alle Gole del Sagittario si parte da Anversa degli Abruzzi e si sale fino a Castrovalva, nido d'aquila che domina dall'alto la lunga cresta del Colle San Michele. Stavolta l'itinerario prende il via da Castrovalva e sale per la ripida e super panoramica cresta del Monte Sant'Angelo... in volo sui tetti del piccolo borgo arroccato, sulle Gole del Sagittario e sulle dirimpettaie pareti del Pizzo Marcello e del Monte Mezzana. Passo dopo passo si inerpica su per la ripida cresta, ora erbosa, ora rocciosa, ora boscosa (fino ai 1283 m della vetta del Monte Sant'Angelo), e la percorre interamente, di balza in balza, fino a raggiungere i verdissimi pascoli di Prata di Castro, dove intercetta l'ampia traccia del tratturo e riscende al borgo, chiudendo l'anello. La cresta regala il punto di vista delle aquile... c'è anche la possibilità (ed è già successo), che le aquile reali vengano per davvero a farci compagnia! In più siamo in piena stagione degli amori dei cervi... nell'aria risuoneranno possenti i loro bramiti. Per gli ampi e ariosi affacci dalla ripida cresta e per le caratteristiche del sentiero (un po' avventuroso), l'escursione è sconsigliata a chi soffre di vertigini.
e spettacolari pareti rocciose del canyon hanno da sempre affascinato gli innumerevoli viaggiatori che si avventuravano nelle terre d'Abruzzo. Tra questi vanno ricordati gli inglesi Richard Keppel Craven e Edward Lear, entrambi autori di interessanti resoconti di viaggio, che ci danno una descrizione dettagliata dell’Abruzzo della prima metà dell’800. Poi negli anni venti arrivarono le Ferrovie dello Stato e costruirono la diga di San Domenico al Sagittario, per alimentare la centrale idroelettrica di Anversa. Una parte delle gole fu definitivamente sommersa e il canyon divenne tristemente silenzioso. A difesa dell'ambiente umido delle sorgenti di Cavuto e della flora rupicola delle gole (fortunatamente conservatasi intatta), si è deciso di istituire nel 1991 l'Oasi WWF delle Gole del Sagittario, che poi nel '97 è divenuta una Riserva Naturale Regionale di 450 ettari. Grazie all'intervento della Riserva le acque del Sagittario sono tornate a cantare. L’itinerario ad anello prende il via da Anversa degli Abruzzi (585 m), scende alla sorgente Cavuto (ca. 520 m), dove si trovano il centro visita della riserva e il giardino botanico, e poi risale un tratto delle gole fino a raggiungere il crinale del Colle San Michele (847 m) dove sorge arroccato l’abitato di Castrovalva. Percorre l’aerea cresta fino ad affacciarci sulle gole e raggiunge un belvedere che regala spesso l’avvistamento dell’aquila reale in volo sulle pareti del Pizzo Marcello. Raggiunge poi per cresta l'abitato di Castrovalva, dove è prevista la pausa-panino. Dopo la tappa a Castrovalva, scende nella boscaglia per altro sentiero, transitando presso il noto girone Escher della strada che sale al piccolo borgo, intitolato all'artista olandese Maurits Cornelis Escher (quello delle scale impossibili, che nel 1929 soggiornò da queste parti e realizzò una litografia su Castrovalva, oggi ammirata in tutto il mondo).
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Gorges of Sagittarius
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e spettacolari pareti rocciose del canyon hanno da sempre affascinato gli innumerevoli viaggiatori che si avventuravano nelle terre d'Abruzzo. Tra questi vanno ricordati gli inglesi Richard Keppel Craven e Edward Lear, entrambi autori di interessanti resoconti di viaggio, che ci danno una descrizione dettagliata dell’Abruzzo della prima metà dell’800. Poi negli anni venti arrivarono le Ferrovie dello Stato e costruirono la diga di San Domenico al Sagittario, per alimentare la centrale idroelettrica di Anversa. Una parte delle gole fu definitivamente sommersa e il canyon divenne tristemente silenzioso. A difesa dell'ambiente umido delle sorgenti di Cavuto e della flora rupicola delle gole (fortunatamente conservatasi intatta), si è deciso di istituire nel 1991 l'Oasi WWF delle Gole del Sagittario, che poi nel '97 è divenuta una Riserva Naturale Regionale di 450 ettari. Grazie all'intervento della Riserva le acque del Sagittario sono tornate a cantare. L’itinerario ad anello prende il via da Anversa degli Abruzzi (585 m), scende alla sorgente Cavuto (ca. 520 m), dove si trovano il centro visita della riserva e il giardino botanico, e poi risale un tratto delle gole fino a raggiungere il crinale del Colle San Michele (847 m) dove sorge arroccato l’abitato di Castrovalva. Percorre l’aerea cresta fino ad affacciarci sulle gole e raggiunge un belvedere che regala spesso l’avvistamento dell’aquila reale in volo sulle pareti del Pizzo Marcello. Raggiunge poi per cresta l'abitato di Castrovalva, dove è prevista la pausa-panino. Dopo la tappa a Castrovalva, scende nella boscaglia per altro sentiero, transitando presso il noto girone Escher della strada che sale al piccolo borgo, intitolato all'artista olandese Maurits Cornelis Escher (quello delle scale impossibili, che nel 1929 soggiornò da queste parti e realizzò una litografia su Castrovalva, oggi ammirata in tutto il mondo).
Tutto il comprensorio dei Monti della Laga è stato duramente colpito. Noi però la Laga ce l'abbiamo nel cuore e nel DNA e ora più che mai vogliamo promuoverne meraviglie e peculiarità. Nel calendario 2021 di Abruzzo Parks troverete tante escursioni sulla Laga, anche trekking di più giorni, perciò "lagamanti" o "lagasognanti" preparate zaino e scarponi... il canto della Laga vi ammalierà. Per questo week-end, il programma è da doppio ululato. Due giorni ricchi di emozioni nel cuore dei Monti della Laga, nei quali potrai camminare nella natura incontaminata, sulle tracce della fauna selvatica, immerso nel silenzio della montagna innevata, accarezzato dal sole e dal vento, per riscoprire un ritmo di vita più sano e quel benessere intimo che il contatto con la natura sa regalare. sabato - TRAMONTO SUL LAGO Arrivo a Campotosto, incontro con le guide, spostamento con le auto fino al luogo di partenza dell'escursione (o ciaspolata). Escursione pomeridiana al Lago di Campotosto nel magico momento in cui il cielo, il lago e le montagne intorno si tingono di rosa (guarda i dettagli dell'escursione). Spostamento in auto fino a Paladini, località di Crognaleto, sistemazione in albergo, cena e pernottamento. domenica - LE BIANCHE CENTO FONTI Dopo una ricca colazione, check out hotel e spostamento in auto fino a Cesacastina per l'incontro con le guide. Partenza in escursione (o ciaspolata) per l'anfiteatro delle Cento Fonti, tra boschi, scivoli, cascate e lande bianche simil-scozzesi (guarda i dettagli dell'escursione). Rientro a Cesacastina nel pomeriggio verso le ore 16.30, saluti e partenza. Il programma potrà subire variazioni in base alle previsioni/condizioni meteonivologiche.
Via Monti della Laga
Via Monti della Laga
Tutto il comprensorio dei Monti della Laga è stato duramente colpito. Noi però la Laga ce l'abbiamo nel cuore e nel DNA e ora più che mai vogliamo promuoverne meraviglie e peculiarità. Nel calendario 2021 di Abruzzo Parks troverete tante escursioni sulla Laga, anche trekking di più giorni, perciò "lagamanti" o "lagasognanti" preparate zaino e scarponi... il canto della Laga vi ammalierà. Per questo week-end, il programma è da doppio ululato. Due giorni ricchi di emozioni nel cuore dei Monti della Laga, nei quali potrai camminare nella natura incontaminata, sulle tracce della fauna selvatica, immerso nel silenzio della montagna innevata, accarezzato dal sole e dal vento, per riscoprire un ritmo di vita più sano e quel benessere intimo che il contatto con la natura sa regalare. sabato - TRAMONTO SUL LAGO Arrivo a Campotosto, incontro con le guide, spostamento con le auto fino al luogo di partenza dell'escursione (o ciaspolata). Escursione pomeridiana al Lago di Campotosto nel magico momento in cui il cielo, il lago e le montagne intorno si tingono di rosa (guarda i dettagli dell'escursione). Spostamento in auto fino a Paladini, località di Crognaleto, sistemazione in albergo, cena e pernottamento. domenica - LE BIANCHE CENTO FONTI Dopo una ricca colazione, check out hotel e spostamento in auto fino a Cesacastina per l'incontro con le guide. Partenza in escursione (o ciaspolata) per l'anfiteatro delle Cento Fonti, tra boschi, scivoli, cascate e lande bianche simil-scozzesi (guarda i dettagli dell'escursione). Rientro a Cesacastina nel pomeriggio verso le ore 16.30, saluti e partenza. Il programma potrà subire variazioni in base alle previsioni/condizioni meteonivologiche.
Collocata ai piedi del Monte Morrone in prossimità dell’Abbazia di Santo Spirito e dell’Eremo di Sant’Onofrio, in un’area la cui sacralità è attestata anche dalla presenza del santuario italico- romano di Ercole Curino, la fontana è stata fin da tempi remoti considerata miracolosa per le sue acque, dotate, secondo la leggenda locale, di poteri straordinari e afrodisiaci e perciò denominata, come la località, Fonte d’Amore. Sempre stando alla tradizione, le sue particolari virtù si ricollegano alla memoria del poeta latino Ovidio (Sulmona 43 a. C. – Tomis 17 d. C.), l’autore degli Amores e dell’Ars Amandi che qui, in un luogo appartato poco distante dalla sua abitazione, avrebbe tenuto i suoi numerosi convegni amorosi con Corinna. Nonostante l’indubbio fascino della tradizione, mancano però precise notizie storiche sulla datazione della fontana, ancora incerta.
Fonte d'Amore
1 Via Fonte D'Amore
Collocata ai piedi del Monte Morrone in prossimità dell’Abbazia di Santo Spirito e dell’Eremo di Sant’Onofrio, in un’area la cui sacralità è attestata anche dalla presenza del santuario italico- romano di Ercole Curino, la fontana è stata fin da tempi remoti considerata miracolosa per le sue acque, dotate, secondo la leggenda locale, di poteri straordinari e afrodisiaci e perciò denominata, come la località, Fonte d’Amore. Sempre stando alla tradizione, le sue particolari virtù si ricollegano alla memoria del poeta latino Ovidio (Sulmona 43 a. C. – Tomis 17 d. C.), l’autore degli Amores e dell’Ars Amandi che qui, in un luogo appartato poco distante dalla sua abitazione, avrebbe tenuto i suoi numerosi convegni amorosi con Corinna. Nonostante l’indubbio fascino della tradizione, mancano però precise notizie storiche sulla datazione della fontana, ancora incerta.
Il Parco, progettato come luogo polifunzionale destinato a far fronte alle accresciute esigenze di svago e alle molteplici attività culturali e ricreative della città, con il suo consistente patrimonio arboreo costituisce la principale area verde urbana, dotata di appositi viali, con panchine e attrezzature ludiche per bambini. Al suo interno, sfruttando il pendio del terreno, è stata ricavata la cavea di un teatro, con gradinate che confluiscono verso lo spazio della scena. Non mancano una serie di locali di servizio, disposti ai lati di un porticato. E’ molto utilizzato per manifestazioni, eventi e spettacoli durante il periodo estivo, per la sua particolare frescura.
Parco Fluviale Sulmona
64 Viale Giovanni XXIII
Il Parco, progettato come luogo polifunzionale destinato a far fronte alle accresciute esigenze di svago e alle molteplici attività culturali e ricreative della città, con il suo consistente patrimonio arboreo costituisce la principale area verde urbana, dotata di appositi viali, con panchine e attrezzature ludiche per bambini. Al suo interno, sfruttando il pendio del terreno, è stata ricavata la cavea di un teatro, con gradinate che confluiscono verso lo spazio della scena. Non mancano una serie di locali di servizio, disposti ai lati di un porticato. E’ molto utilizzato per manifestazioni, eventi e spettacoli durante il periodo estivo, per la sua particolare frescura.
Il giardino, noto con il nome di “Villa Comunale” e realizzato su disegno del genovese Luigi Rovelli, presenta un impianto rigorosamente geometrico ed è costituito da un ampio sito di forma rettangolare allungata, che si sviluppa per circa 800 metri, con viale perimetrale alberato e numerose aiuole con vialetti in ghiaia. Nell’area interna sono inserite, in posizione simmetrica rispetto all’asse trasversale mediano del rettangolo di pianta, due ampie peschiere circolari - in pietra con colonna centrale in tufo, da cui l’acqua zampilla che si riversa nella vasca sottostante – oltre a due “fontanelle” per dissetarsi.
Villa comunale
17 Viale Roosevelt
Il giardino, noto con il nome di “Villa Comunale” e realizzato su disegno del genovese Luigi Rovelli, presenta un impianto rigorosamente geometrico ed è costituito da un ampio sito di forma rettangolare allungata, che si sviluppa per circa 800 metri, con viale perimetrale alberato e numerose aiuole con vialetti in ghiaia. Nell’area interna sono inserite, in posizione simmetrica rispetto all’asse trasversale mediano del rettangolo di pianta, due ampie peschiere circolari - in pietra con colonna centrale in tufo, da cui l’acqua zampilla che si riversa nella vasca sottostante – oltre a due “fontanelle” per dissetarsi.

Le Guide ai Quartieri

La suggestiva Piazza Garibaldi è la piazza più grande della città, da sempre destinata all’allestimento del mercato locale che si svolge con cadenza bisettimanale il mercoledì ed il sabato mattina. Il Consiglio comunale del 7 giugno 1882 la denominò, in sostituzione dei vecchi titoli, piazza Maggiore o piazza Grande[1]. Lo spazio, delimitato dalle vecchie mura, dalle arcate dell’acquedotto e dai nuovi borghi, prese corpo gradualmente fino ad assumere la conformazione attuale e a consolidarsi nella sua funzione di “piazza del Mercato”. Già in passato era destinata ad ospitare spettacoli e pubbliche manifestazioni; oggi, durante l’anno, accoglie gli eventi più importanti della città, come la Giostra Cavalleresca, la Madonna che scappa in piazza ed altre feste estive e religiose. Rappresenta una tra le piazze più grandi d’Italia.
Piazza Giuseppe Garibaldi
Piazza Giuseppe Garibaldi
La suggestiva Piazza Garibaldi è la piazza più grande della città, da sempre destinata all’allestimento del mercato locale che si svolge con cadenza bisettimanale il mercoledì ed il sabato mattina. Il Consiglio comunale del 7 giugno 1882 la denominò, in sostituzione dei vecchi titoli, piazza Maggiore o piazza Grande[1]. Lo spazio, delimitato dalle vecchie mura, dalle arcate dell’acquedotto e dai nuovi borghi, prese corpo gradualmente fino ad assumere la conformazione attuale e a consolidarsi nella sua funzione di “piazza del Mercato”. Già in passato era destinata ad ospitare spettacoli e pubbliche manifestazioni; oggi, durante l’anno, accoglie gli eventi più importanti della città, come la Giostra Cavalleresca, la Madonna che scappa in piazza ed altre feste estive e religiose. Rappresenta una tra le piazze più grandi d’Italia.

Visite turistiche

San Francesco della Scarpa risale al 1241, anno in cui la sua costruzione era stata già ultimata; nel 1290, per volontà del re Carlo II d’Angiò, venne riedificata ed ampliata in un complesso architettonico molto più imponente del precedente, tale da risultare “la più importante chiesa francescana medievale d'Abruzzo". Il rinnovato edificio doveva presentare una struttura complessa ed articolata, secondo schemi compositivi tipicamente gotici: impianto planimetrico longitudinale a tre navate coperte da volte a crociera ed altrettante absidi poligonali; archi e campate di raccordo tra le pareti del corpo longitudinale e quelle più divaricate del presbiterio. La chiesa attuale non corrisponde a quella di età angioina, in gran parte crollata in seguito ai vari terremoti, bensì alla sua ristrutturazione settecentesca. Già il terremoto del 1456, infatti, aveva seriamente compromesso la fabbrica, ma a provocare danni irreparabili fu il sisma verificatosi nel 1706: con il crollo della campata superiore del fronte si persero tutta l’opera di traforo del rosone e le strutture interne delle tre navate. Rovinarono anche il campanile e l’intera zona presbiteriale, di cui restano oggi solo parte del perimetro poligonale delle absidi e il monumentale ingresso laterale affacciato su Corso Ovidio, rimasti isolati dal corpo della nuova chiesa, che venne ricostruita più piccola e ad una sola navata.
San Francesco della Scarpa
4 Via Panfilo Mazara
San Francesco della Scarpa risale al 1241, anno in cui la sua costruzione era stata già ultimata; nel 1290, per volontà del re Carlo II d’Angiò, venne riedificata ed ampliata in un complesso architettonico molto più imponente del precedente, tale da risultare “la più importante chiesa francescana medievale d'Abruzzo". Il rinnovato edificio doveva presentare una struttura complessa ed articolata, secondo schemi compositivi tipicamente gotici: impianto planimetrico longitudinale a tre navate coperte da volte a crociera ed altrettante absidi poligonali; archi e campate di raccordo tra le pareti del corpo longitudinale e quelle più divaricate del presbiterio. La chiesa attuale non corrisponde a quella di età angioina, in gran parte crollata in seguito ai vari terremoti, bensì alla sua ristrutturazione settecentesca. Già il terremoto del 1456, infatti, aveva seriamente compromesso la fabbrica, ma a provocare danni irreparabili fu il sisma verificatosi nel 1706: con il crollo della campata superiore del fronte si persero tutta l’opera di traforo del rosone e le strutture interne delle tre navate. Rovinarono anche il campanile e l’intera zona presbiteriale, di cui restano oggi solo parte del perimetro poligonale delle absidi e il monumentale ingresso laterale affacciato su Corso Ovidio, rimasti isolati dal corpo della nuova chiesa, che venne ricostruita più piccola e ad una sola navata.
Il complesso, dedicato alla SS. Annunziata e costituito dalla chiesa con l’annesso palazzo, è forse il monumento più rappresentativo e celebre della città di Sulmona, poiché racchiude e sintetizza, anche visivamente, molti secoli di storia e di espressioni artistiche. Chiesa ed ospedale furono fondati nel 1320 dalla confraternita laica dei Compenitenti (o della Penitenza), che aveva soprattutto scopi assistenziali; grazie poi all’aiuto dei potenti e al contributo della cittadinanza, l’hospitale divenne uno dei più importanti del Regno di Napoli e assorbì strutture analoghe già presenti allora in città. La costruzione si sovrappose ad alcune preesistenze sacre, in particolare un modesto oratorio dedicato alla Vergine Maria e, occupando un sito del nucleo storico più antico, anche ad altri edifici precedenti.
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Annunziata
231 Corso Ovidio
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Il complesso, dedicato alla SS. Annunziata e costituito dalla chiesa con l’annesso palazzo, è forse il monumento più rappresentativo e celebre della città di Sulmona, poiché racchiude e sintetizza, anche visivamente, molti secoli di storia e di espressioni artistiche. Chiesa ed ospedale furono fondati nel 1320 dalla confraternita laica dei Compenitenti (o della Penitenza), che aveva soprattutto scopi assistenziali; grazie poi all’aiuto dei potenti e al contributo della cittadinanza, l’hospitale divenne uno dei più importanti del Regno di Napoli e assorbì strutture analoghe già presenti allora in città. La costruzione si sovrappose ad alcune preesistenze sacre, in particolare un modesto oratorio dedicato alla Vergine Maria e, occupando un sito del nucleo storico più antico, anche ad altri edifici precedenti.
la chiesa di Santa Maria della Tomba fu eretta sui resti di un antico tempio di Giove o, come riportano alcuni studiosi locali, su parte di quella che sarebbe stata la dimora di Ovidio; il nome deriverebbe invece dall’esistenza di un’antica costruzione, ritenuta un sepolcro, che si trovava lungo la navata centrale, poi demolita nel XVII secolo. In realtà il titolo di Santa Maria della Tomba è l'abbreviazione della locuzione "Santa Maria dalla Tomba Assunta in cielo", poiché la chiesa è dedicata alla Vergine Assunta. I primi cenni storici sul tempio, annoverato tra i più importanti edifici religiosi di Sulmona, risalgono al XIII secolo e nel XIV secolo il suo prestigio era tale da dare il nome ad un intero borgo. Quest’ultimo, chiamato prima borgo nuovo, poi di Sant’Agata e successivamente di Santa Maria della Tomba, si era progressivamente formato al di là delle mura meridionali più antiche, in prossimità dell’area destinata al mercato e alle fiere, laddove si concentravano le principali attività commerciali ed artigianali e maggiore era stato perciò lo sviluppo demografico ed urbanistico. Nel corso dei secoli la chiesa ha subito varie trasformazioni e ristrutturazioni che ne hanno modificato l’aspetto originario: venne completamente ampliata e rinnovata tra ilXIV e XV secolo, epoca in cui la facciata, con il portale ogivale e l’elegante rosone, acquisì il suo aspetto attuale; fu notevolmente spoliata ed alterata da successivi ammodernamenti nel corso del XVII secolo (1619) e, nel 1857, venne completamente trasformata negli interni seguendo le tendenze stilistiche dell’epoca. Alle trasformazioni operate dall'uomo si aggiunsero gli effetti prodotti dai terremoti, in particolare quello del 1706, che distrusse completamente la parte posteriore del fabbricato, di cui rimasero in piedi la facciata, il colonnato interno ed il campanile. Solo negli anni Settanta del secolo scorso, l’allora Soprintendenza ai BAAAS provvide, con un maldestro intervento, a rimuovere l’apparato decorativo a stucco e le sovrastrutture barocche per conferire agli interni una veste più vicina all’originario aspetto medievale. Nell’intervento si innalzò erroneamente il livello delle strutture di copertura e, per evitare che quest’ultime superassero in altezza la facciata principale della chiesa, si eresse sul coronamento della stessa una nuova muratura - di colore più chiaro rispetto all’originari - dotandola, tra l’altro, di un’improbabile soluzione decorativa ad arcatelle cieche. Dopo il terremoto di L’Aquila del 2009 la chiesa è stata nuovamente oggetto di lavori di consolidamento murario e restauro conservativo mirati a migliorarne la risposta sismica grazie all’inserimento di tiranti e imperniature metalliche nelle murature dell’edificio.
Porta di Santa Maria della Tomba
6 Piazza Plebiscito
la chiesa di Santa Maria della Tomba fu eretta sui resti di un antico tempio di Giove o, come riportano alcuni studiosi locali, su parte di quella che sarebbe stata la dimora di Ovidio; il nome deriverebbe invece dall’esistenza di un’antica costruzione, ritenuta un sepolcro, che si trovava lungo la navata centrale, poi demolita nel XVII secolo. In realtà il titolo di Santa Maria della Tomba è l'abbreviazione della locuzione "Santa Maria dalla Tomba Assunta in cielo", poiché la chiesa è dedicata alla Vergine Assunta. I primi cenni storici sul tempio, annoverato tra i più importanti edifici religiosi di Sulmona, risalgono al XIII secolo e nel XIV secolo il suo prestigio era tale da dare il nome ad un intero borgo. Quest’ultimo, chiamato prima borgo nuovo, poi di Sant’Agata e successivamente di Santa Maria della Tomba, si era progressivamente formato al di là delle mura meridionali più antiche, in prossimità dell’area destinata al mercato e alle fiere, laddove si concentravano le principali attività commerciali ed artigianali e maggiore era stato perciò lo sviluppo demografico ed urbanistico. Nel corso dei secoli la chiesa ha subito varie trasformazioni e ristrutturazioni che ne hanno modificato l’aspetto originario: venne completamente ampliata e rinnovata tra ilXIV e XV secolo, epoca in cui la facciata, con il portale ogivale e l’elegante rosone, acquisì il suo aspetto attuale; fu notevolmente spoliata ed alterata da successivi ammodernamenti nel corso del XVII secolo (1619) e, nel 1857, venne completamente trasformata negli interni seguendo le tendenze stilistiche dell’epoca. Alle trasformazioni operate dall'uomo si aggiunsero gli effetti prodotti dai terremoti, in particolare quello del 1706, che distrusse completamente la parte posteriore del fabbricato, di cui rimasero in piedi la facciata, il colonnato interno ed il campanile. Solo negli anni Settanta del secolo scorso, l’allora Soprintendenza ai BAAAS provvide, con un maldestro intervento, a rimuovere l’apparato decorativo a stucco e le sovrastrutture barocche per conferire agli interni una veste più vicina all’originario aspetto medievale. Nell’intervento si innalzò erroneamente il livello delle strutture di copertura e, per evitare che quest’ultime superassero in altezza la facciata principale della chiesa, si eresse sul coronamento della stessa una nuova muratura - di colore più chiaro rispetto all’originari - dotandola, tra l’altro, di un’improbabile soluzione decorativa ad arcatelle cieche. Dopo il terremoto di L’Aquila del 2009 la chiesa è stata nuovamente oggetto di lavori di consolidamento murario e restauro conservativo mirati a migliorarne la risposta sismica grazie all’inserimento di tiranti e imperniature metalliche nelle murature dell’edificio.
La porta sud di accesso alla città medievale era inserita nella seconda cinta muraria, edificata tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo per far fronte alle nuove esigenze difensive dell’abitato urbano conseguenti all’imponente crescita demografica e all’espansione urbanistica che Sulmona aveva avuto durante il periodo della dominazione sveva (sec. XIII). Denominata in precedenza “Porta Nova”, forse perché posta sulla direttrice dell’antica “Via Nova”, difendeva l’ingresso sud della città ed era posta sull’importante asse stradale di collegamento con Napoli, capitale del Regno
Porta Napoli
6 Corso Ovidio
La porta sud di accesso alla città medievale era inserita nella seconda cinta muraria, edificata tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo per far fronte alle nuove esigenze difensive dell’abitato urbano conseguenti all’imponente crescita demografica e all’espansione urbanistica che Sulmona aveva avuto durante il periodo della dominazione sveva (sec. XIII). Denominata in precedenza “Porta Nova”, forse perché posta sulla direttrice dell’antica “Via Nova”, difendeva l’ingresso sud della città ed era posta sull’importante asse stradale di collegamento con Napoli, capitale del Regno
Il Palazzo che oggi si estende su una vasta area compresa tra corso Ovidio, vico del Vecchio, vico dell’Arco e via Roma, è frutto di edificazioni successive. Esso insiste in un punto cardine della città, in corrispondenza delle antiche mura alto medievali, dell’antica Porta Salvatoris, della chiesa di S. Francesco della Scarpa, della Fontana del Vecchio e dell’Acquedotto medievale che si affaccia su piazza Garibaldi. Il palazzo attuale è contraddistinto da cinque unità: la prima, di origine cinque-secentesca, su vico del Vecchio; la seconda - adiacente alla prima ed aperta sul medesimo asse viario - ricostruita nella seconda metà del XVIII secolo, in seguito al terremoto del 1706; la terza, più bassa, ricostruita nel secolo scorso; la quarta costituita dal monumentale edificio ottocentesco che si affaccia lungo corso Ovidio e via Roma.
Palazzo Corvi
5 Vicolo del Vecchio
Il Palazzo che oggi si estende su una vasta area compresa tra corso Ovidio, vico del Vecchio, vico dell’Arco e via Roma, è frutto di edificazioni successive. Esso insiste in un punto cardine della città, in corrispondenza delle antiche mura alto medievali, dell’antica Porta Salvatoris, della chiesa di S. Francesco della Scarpa, della Fontana del Vecchio e dell’Acquedotto medievale che si affaccia su piazza Garibaldi. Il palazzo attuale è contraddistinto da cinque unità: la prima, di origine cinque-secentesca, su vico del Vecchio; la seconda - adiacente alla prima ed aperta sul medesimo asse viario - ricostruita nella seconda metà del XVIII secolo, in seguito al terremoto del 1706; la terza, più bassa, ricostruita nel secolo scorso; la quarta costituita dal monumentale edificio ottocentesco che si affaccia lungo corso Ovidio e via Roma.
Le notizie circa le origini del monastero di Santa Caterina sono discordanti: alcuni studiosi le farebbero risalire al XII secolo, ma la maggior parte di essi ritiene che la storia del complesso abbia inizio nel 1325, con la fondazione del convento femminile domenicano e dell’annessa chiesa da parte di Angelerio - di famiglia locale benché nativo di Caramanico - canonico della cattedrale di San Panfilo. Sfortunatamente l’insieme rovinò totalmente in seguito ai terremoti del 1456 e del 1706, sicché risulta impossibile risalire al primitivo aspetto, conservatosi forse solo nell’impianto conventuale. Fu il barone Pietro Giovanni Corvi a provvedere alla sua prima ricostruzione, nel Quattrocento, epoca in cui la chiesa assunse con ogni probabilità una pianta a due navate. La successiva riedificazione seguita al terribile sisma del 1706 portò ad una completa trasformazione del tempio secondo il nuovo linguaggio barocco, sia nell'alzato che nelle decorazioni e nell'arredo. Nel XIX secolo il complesso si avviò verso un lento declino, finché agli inizi del ‘900 il Comune, dopo la soppressione dell’ordine, acquisì la struttura monastica, destinandola in gran parte ad edificio scolastico e riservando alcuni ambienti alle ultime suore rimaste. La chiesa, concessa nel 1967 all’Accademia Cateriniana di Cultura, svolse per un certo periodo la funzione di Auditorium cittadino; attualmente viene aperta solo in rare occasioni mentre l’edificio conventuale, dopo varie destinazioni d’uso, dovrebbe ospitare l’auspicato Polo Culturale di Santa Caterina, comprendente anche il Teatro Comunale ed il Cinema-Teatro Pacifico, sulla scorta di uno specifico progetto di recupero.
Chiesa e Convento di Santa Caterina D'Alessandria
19 Via Giuseppe Andrea Angeloni
Le notizie circa le origini del monastero di Santa Caterina sono discordanti: alcuni studiosi le farebbero risalire al XII secolo, ma la maggior parte di essi ritiene che la storia del complesso abbia inizio nel 1325, con la fondazione del convento femminile domenicano e dell’annessa chiesa da parte di Angelerio - di famiglia locale benché nativo di Caramanico - canonico della cattedrale di San Panfilo. Sfortunatamente l’insieme rovinò totalmente in seguito ai terremoti del 1456 e del 1706, sicché risulta impossibile risalire al primitivo aspetto, conservatosi forse solo nell’impianto conventuale. Fu il barone Pietro Giovanni Corvi a provvedere alla sua prima ricostruzione, nel Quattrocento, epoca in cui la chiesa assunse con ogni probabilità una pianta a due navate. La successiva riedificazione seguita al terribile sisma del 1706 portò ad una completa trasformazione del tempio secondo il nuovo linguaggio barocco, sia nell'alzato che nelle decorazioni e nell'arredo. Nel XIX secolo il complesso si avviò verso un lento declino, finché agli inizi del ‘900 il Comune, dopo la soppressione dell’ordine, acquisì la struttura monastica, destinandola in gran parte ad edificio scolastico e riservando alcuni ambienti alle ultime suore rimaste. La chiesa, concessa nel 1967 all’Accademia Cateriniana di Cultura, svolse per un certo periodo la funzione di Auditorium cittadino; attualmente viene aperta solo in rare occasioni mentre l’edificio conventuale, dopo varie destinazioni d’uso, dovrebbe ospitare l’auspicato Polo Culturale di Santa Caterina, comprendente anche il Teatro Comunale ed il Cinema-Teatro Pacifico, sulla scorta di uno specifico progetto di recupero.
La fondazione del monastero di Santa Chiara, situato al margine sud – occidentale di piazza Garibaldi, si fa risalire agli anni compresi tra il 1260 e il 1269 e all’opera della beata Floresenda o Floresella, figlia del conte di Palena, Tommaso di Caprifico. E’ sicuramente uno dei più antichi insediamenti monastici delle clarisse nel Regno di Napoli e, col tempo, diventò anche tra i più ricchi e meglio dotati, grazie soprattutto alle numerose ed ingenti donazioni; la riforma dell’ordine religioso, tuttora vigente, fu formulata proprio nel convento di Sulmona. Come la maggior parte degli edifici conventuali francescani sorgeva al di fuori del nucleo urbano più antico, in una delle zone di espansione della città, dove quindi non sussistevano vincoli che ne limitassero la crescita ed era possibile provvedere all’auto-sostentamento della comunità religiosa grazie ad un vasto terreno di pertinenza, adibito ad orti. L’intero complesso monastico occupa una vasta area che dall’antica piazza Maggiore, a cui fa da sfondo, arriva con i suoi campi a lambire il tratto orientale delle mura di cinta del XIV secolo, sorte per racchiudere i nuovi borghi in formazione. Esso si sviluppa su un quadrilatero e comprende la chiesa aperta ai fedeli, con la retrostante cappella ad uso interno, il campanile, l’edificio conventuale vero e proprio, organizzato su due piani attorno ad un chiostro rettangolare, il parlatorio ed alcune case di pertinenza che si affacciano su una piazzetta-sagrato. Nell’isolamento della vita monastica le suore si dedicarono a numerose attività artigianali, tra cui, fin dal Quattrocento, alla lavorazione artistica dei confetti che nel corso dei secoli ha reso celebre Sulmona nel mondo. Il pio luogo venne più volte ricostruito, restaurato ed ingrandito, sia per far fronte alle crescenti esigenze di spazio, sia a causa dei danni provocati dai terribili terremoti che si abbatterono sulla città, specie nel 1456 e nel 1706, tanto che attualmente si conserva ben poco della struttura originaria. Nella prima metà dell’Ottocento il monastero visse ancora un periodo florido, tanto che la badessa, nel 1837, fu costretta ad ampliare il dormitorio e il refettorio; dal 1866, anno in cui il monastero venne soppresso, iniziò un periodo di inesorabile declino: la proprietà passò prima al Ministero di Grazia e Giustizia e infine, nel 1907, al Comune di Sulmona. Per l’adeguamento alle diverse e mutate destinazioni d’uso (scuola, asilo, ricovero per anziani, ma anche campo da gioco e sala cinematografica) vennero apportate ulteriori modifiche alle strutture, soprattutto nella distribuzione degli spazi. L’edificio conventuale ospita attualmente al primo livello il Polo Culturale Civico Diocesano di Santa Chiara, mentre il piano superiore è adibito a casa di riposo per anziani. Degli ambienti a pianterreno la cappella interna, insieme ad un altro vano ed al vasto refettorio, è utilizzata come spazio espositivo del Museo Diocesano di Arte Sacra; altri tre locali sono riservati alla Biblioteca Diocesana, nella cui sala di lettura - allestita nell'ex-parlatorio - è ancora possibile ammirare le mostre in pietra delle grate, dietro le quali le clarisse potevano incontrare i visitatori. Nei restanti ambienti è esposta la collezione d’arte moderna e contemporanea della Pinacoteca Comunale, collegata alla Rassegna Internazionale d’Arte Contemporanea che annualmente si svolge nella città.
Chiesa e Convento di Santa Chiara
89 Via Fuori Porta Monte
La fondazione del monastero di Santa Chiara, situato al margine sud – occidentale di piazza Garibaldi, si fa risalire agli anni compresi tra il 1260 e il 1269 e all’opera della beata Floresenda o Floresella, figlia del conte di Palena, Tommaso di Caprifico. E’ sicuramente uno dei più antichi insediamenti monastici delle clarisse nel Regno di Napoli e, col tempo, diventò anche tra i più ricchi e meglio dotati, grazie soprattutto alle numerose ed ingenti donazioni; la riforma dell’ordine religioso, tuttora vigente, fu formulata proprio nel convento di Sulmona. Come la maggior parte degli edifici conventuali francescani sorgeva al di fuori del nucleo urbano più antico, in una delle zone di espansione della città, dove quindi non sussistevano vincoli che ne limitassero la crescita ed era possibile provvedere all’auto-sostentamento della comunità religiosa grazie ad un vasto terreno di pertinenza, adibito ad orti. L’intero complesso monastico occupa una vasta area che dall’antica piazza Maggiore, a cui fa da sfondo, arriva con i suoi campi a lambire il tratto orientale delle mura di cinta del XIV secolo, sorte per racchiudere i nuovi borghi in formazione. Esso si sviluppa su un quadrilatero e comprende la chiesa aperta ai fedeli, con la retrostante cappella ad uso interno, il campanile, l’edificio conventuale vero e proprio, organizzato su due piani attorno ad un chiostro rettangolare, il parlatorio ed alcune case di pertinenza che si affacciano su una piazzetta-sagrato. Nell’isolamento della vita monastica le suore si dedicarono a numerose attività artigianali, tra cui, fin dal Quattrocento, alla lavorazione artistica dei confetti che nel corso dei secoli ha reso celebre Sulmona nel mondo. Il pio luogo venne più volte ricostruito, restaurato ed ingrandito, sia per far fronte alle crescenti esigenze di spazio, sia a causa dei danni provocati dai terribili terremoti che si abbatterono sulla città, specie nel 1456 e nel 1706, tanto che attualmente si conserva ben poco della struttura originaria. Nella prima metà dell’Ottocento il monastero visse ancora un periodo florido, tanto che la badessa, nel 1837, fu costretta ad ampliare il dormitorio e il refettorio; dal 1866, anno in cui il monastero venne soppresso, iniziò un periodo di inesorabile declino: la proprietà passò prima al Ministero di Grazia e Giustizia e infine, nel 1907, al Comune di Sulmona. Per l’adeguamento alle diverse e mutate destinazioni d’uso (scuola, asilo, ricovero per anziani, ma anche campo da gioco e sala cinematografica) vennero apportate ulteriori modifiche alle strutture, soprattutto nella distribuzione degli spazi. L’edificio conventuale ospita attualmente al primo livello il Polo Culturale Civico Diocesano di Santa Chiara, mentre il piano superiore è adibito a casa di riposo per anziani. Degli ambienti a pianterreno la cappella interna, insieme ad un altro vano ed al vasto refettorio, è utilizzata come spazio espositivo del Museo Diocesano di Arte Sacra; altri tre locali sono riservati alla Biblioteca Diocesana, nella cui sala di lettura - allestita nell'ex-parlatorio - è ancora possibile ammirare le mostre in pietra delle grate, dietro le quali le clarisse potevano incontrare i visitatori. Nei restanti ambienti è esposta la collezione d’arte moderna e contemporanea della Pinacoteca Comunale, collegata alla Rassegna Internazionale d’Arte Contemporanea che annualmente si svolge nella città.
Una fontana che raccoglieva le acque all’ingresso meridionale della città, a ridosso delle mura civiche più antiche, esisteva probabilmente già prima ancora del 1474, anno in cui il capitano della città Polidoro Tiberti da Cesena la facesse ricostruire secondo il nuovo gusto rinascimentale. Lo stesso Tiberti curò la realizzazione di importanti opere pubbliche e di risistemazione urbana, come il rifacimento di alcuni tratti di mura e di alcune porte, il rinnovamento e la lastricatura di tutte le strade, secondo un programma urbanistico di ampio respiro. Benché modificata nella parte inferiore, ove nel 1901 si sostituì la semplice vasca quadrangolare liscia con quella attualmente in sede del tipo a sarcofago con motivo decorativo a baccellature, la fontana conserva intatta la parte superiore con l’originaria trabeazione e il frontone semicircolare. Essa rappresenta un episodio di notevole qualità artistica, un “unicum”, molto probabilmente opera di maestranze provenienti da aree geografiche esterne alla realtà abruzzese.
Vecchio Fountain
Una fontana che raccoglieva le acque all’ingresso meridionale della città, a ridosso delle mura civiche più antiche, esisteva probabilmente già prima ancora del 1474, anno in cui il capitano della città Polidoro Tiberti da Cesena la facesse ricostruire secondo il nuovo gusto rinascimentale. Lo stesso Tiberti curò la realizzazione di importanti opere pubbliche e di risistemazione urbana, come il rifacimento di alcuni tratti di mura e di alcune porte, il rinnovamento e la lastricatura di tutte le strade, secondo un programma urbanistico di ampio respiro. Benché modificata nella parte inferiore, ove nel 1901 si sostituì la semplice vasca quadrangolare liscia con quella attualmente in sede del tipo a sarcofago con motivo decorativo a baccellature, la fontana conserva intatta la parte superiore con l’originaria trabeazione e il frontone semicircolare. Essa rappresenta un episodio di notevole qualità artistica, un “unicum”, molto probabilmente opera di maestranze provenienti da aree geografiche esterne alla realtà abruzzese.
L'edificio, il più grande dei teatri storici abruzzesi ed uno dei migliori per acustica, attrezzatura tecnica e soprattutto bellezza, ricalca la tipologia tripartita settecentesca, costituita da tre corpi di fabbrica: uno più basso, che si affaccia sull'attuale via Angeloni, con ingresso, fumoir e bar; uno centrale in cui si trovano vestibolo, platea, palchi e corridoi; infine quello posteriore, destinato al palcoscenico, camerini e disimpegni. L’avancorpo di ingresso richiama con evidenza lo stile neoclassico: il prospetto principale presenta semicolonne doriche - che inquadrano cinque arcate a tutto sesto e sostengono una trabeazione con fregio costituito dall’alternarsi di metope e triglifi – e, al di sopra, un ampio terrazzo con balaustrata in pietra. La parte superiore della facciata, in cui si aprono finestre con timpano triangolare tra lesene di ordine composito, è conclusa da un classico frontone. All’interno una ricca decorazione a stucco contraddistingue vestibolo e fumoir; ad impreziosire la sala sono i piccoli lampadari in cristallo di boemia e il rivestimento in seta damascata e, in alto, sovrasta la platea una grande corona luminosa composta anch’essa da preziosi cristalli di boemia. I posti a sedere – settecento in totale – sono distribuiti tra l’ampia platea, con forma a ferro di cavallo, sessantacinque palchi, separati da archi ribassati ripartiti in quattro ordini, un anfiteatro e il loggione. Tra la platea e il palcoscenico, separata da una balaustra in legno, si trova la buca dell’orchestra, l’unica in Abruzzo in grado di ospitare cinquanta elementi. Attualmente nel teatro si svolgono, oltre all’annuale stagione di prosa, opere liriche, spettacoli, concerti - organizzati dalla Camerata Musicale sulmonese e dall’Ateneo Internazionale della Lirica - e altre manifestazioni ed eventi curati dalle numerose associazioni culturali locali, il prestigioso Concorso Internazionale di Canto Lirico "Maria Caniglia”, istituito nel 1983 ed intitolato alla famosa soprano.
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Teatro Comunale Maria Caniglia
30 Via Antonio de Nino
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L'edificio, il più grande dei teatri storici abruzzesi ed uno dei migliori per acustica, attrezzatura tecnica e soprattutto bellezza, ricalca la tipologia tripartita settecentesca, costituita da tre corpi di fabbrica: uno più basso, che si affaccia sull'attuale via Angeloni, con ingresso, fumoir e bar; uno centrale in cui si trovano vestibolo, platea, palchi e corridoi; infine quello posteriore, destinato al palcoscenico, camerini e disimpegni. L’avancorpo di ingresso richiama con evidenza lo stile neoclassico: il prospetto principale presenta semicolonne doriche - che inquadrano cinque arcate a tutto sesto e sostengono una trabeazione con fregio costituito dall’alternarsi di metope e triglifi – e, al di sopra, un ampio terrazzo con balaustrata in pietra. La parte superiore della facciata, in cui si aprono finestre con timpano triangolare tra lesene di ordine composito, è conclusa da un classico frontone. All’interno una ricca decorazione a stucco contraddistingue vestibolo e fumoir; ad impreziosire la sala sono i piccoli lampadari in cristallo di boemia e il rivestimento in seta damascata e, in alto, sovrasta la platea una grande corona luminosa composta anch’essa da preziosi cristalli di boemia. I posti a sedere – settecento in totale – sono distribuiti tra l’ampia platea, con forma a ferro di cavallo, sessantacinque palchi, separati da archi ribassati ripartiti in quattro ordini, un anfiteatro e il loggione. Tra la platea e il palcoscenico, separata da una balaustra in legno, si trova la buca dell’orchestra, l’unica in Abruzzo in grado di ospitare cinquanta elementi. Attualmente nel teatro si svolgono, oltre all’annuale stagione di prosa, opere liriche, spettacoli, concerti - organizzati dalla Camerata Musicale sulmonese e dall’Ateneo Internazionale della Lirica - e altre manifestazioni ed eventi curati dalle numerose associazioni culturali locali, il prestigioso Concorso Internazionale di Canto Lirico "Maria Caniglia”, istituito nel 1983 ed intitolato alla famosa soprano.
Il santuario dedicato ad Ercole Curino sorge alle falde del monte Morrone, nei luoghi che la tradizione locale ha da sempre associato alla memoria del poeta latino Ovidio, nato a Sulmona nel 43 a.C. e morto in esilio a Tomis, sul Mar Nero, nel 17 d.C. Fino al 1957, anno in cui si diede inizio ad una campagna di scavi di grandi proporzioni, si ritenne che gli antichi resti architettonici affioranti dal terreno, nei pressi della località denominata appunto “Fonte d’Amore”, appartenessero alla “Villa di Ovidio”. Le strutture che gli archeologi riportarono alla luce nel corso del decennio successivo indicarono però che non si trattava di un’abitazione, ma di un’opera architettonica di ben maggiori dimensioni, riferibile ad un importante luogo di culto costruito su terrazzamenti artificiali e frequentato dalle popolazioni locali dal IV secolo a.C. al II d.C.
Area Archeologica di Ercole Curino
Via Badia
Il santuario dedicato ad Ercole Curino sorge alle falde del monte Morrone, nei luoghi che la tradizione locale ha da sempre associato alla memoria del poeta latino Ovidio, nato a Sulmona nel 43 a.C. e morto in esilio a Tomis, sul Mar Nero, nel 17 d.C. Fino al 1957, anno in cui si diede inizio ad una campagna di scavi di grandi proporzioni, si ritenne che gli antichi resti architettonici affioranti dal terreno, nei pressi della località denominata appunto “Fonte d’Amore”, appartenessero alla “Villa di Ovidio”. Le strutture che gli archeologi riportarono alla luce nel corso del decennio successivo indicarono però che non si trattava di un’abitazione, ma di un’opera architettonica di ben maggiori dimensioni, riferibile ad un importante luogo di culto costruito su terrazzamenti artificiali e frequentato dalle popolazioni locali dal IV secolo a.C. al II d.C.
Nel sito le varie fasi cronologiche delle opere in muratura sono evidenziate da malta di diverso colore al fine di consentirne una più chiara lettura. Nel livello inferiore, a circa 1,80 metri di profondità si trovano i diversi ambienti che costituivano la ricca dimora, quasi tutti con pavimento rivestito a mosaico con tessere bianche e fascia perimetrale nera, tranne gli ultimi due con pavimento in opus signinum, cioè composto da “cocciopesto” misto a scaglie di pietra e mattoni, con molta probabilità riferibili a locali di servizio. I cinque ambienti della casa erano situati attorno ad uno spazio centrale scoperto – una piccola corte interna – con rozza pavimentazione, ove probabilmente alloggiava una vasca per la raccolta delle acque piovane. La maggior parte delle pareti di epoca romana sono andate perdute nei successivi interventi di spoliazione per recuperare materiale da costruzione, sebbene alcune in opus quasi reticulatum siano ancora ben visibili. Sono inoltre evidenti alcune modifiche apportate alla casa in un secondo momento, forse alla fine del I sec. a.C. quando, per mutate esigenze di spazio, si provvide a ridurre le dimensioni della stanza principale. Su appositi pannelli esposti a parete sono state parzialmente ricomposte le pitture che abbellivano la domus, rinvenute nello scavo in numerosissimi frammenti: si tratta di un ciclo pittorico di notevole qualità artistica il cui schema decorativo fa riferimento al cosiddetto Terzo Stile pompeiano. L’intera partitura decorativa era impostata sulla rappresentazione di miti e simboli del ciclo dionisiaco, con una megalografia che ritrae la sacra unione di Dioniso e Arianna e la disputa tra Eros e Pan. All’interno delle vetrine, allestite lungo il percorso, sono esposti i reperti restituiti dall’indagine dell’area - appartenenti all’età romana e alle successive epoche medievale e rinascimentale - oltre che altri manufatti pertinenti ai siti archeologici di Ocriticum e del territorio peligno: frammenti di maioliche, monete, oggetti decorativi e d’uso quotidiano.
Domus di Arianna
Nel sito le varie fasi cronologiche delle opere in muratura sono evidenziate da malta di diverso colore al fine di consentirne una più chiara lettura. Nel livello inferiore, a circa 1,80 metri di profondità si trovano i diversi ambienti che costituivano la ricca dimora, quasi tutti con pavimento rivestito a mosaico con tessere bianche e fascia perimetrale nera, tranne gli ultimi due con pavimento in opus signinum, cioè composto da “cocciopesto” misto a scaglie di pietra e mattoni, con molta probabilità riferibili a locali di servizio. I cinque ambienti della casa erano situati attorno ad uno spazio centrale scoperto – una piccola corte interna – con rozza pavimentazione, ove probabilmente alloggiava una vasca per la raccolta delle acque piovane. La maggior parte delle pareti di epoca romana sono andate perdute nei successivi interventi di spoliazione per recuperare materiale da costruzione, sebbene alcune in opus quasi reticulatum siano ancora ben visibili. Sono inoltre evidenti alcune modifiche apportate alla casa in un secondo momento, forse alla fine del I sec. a.C. quando, per mutate esigenze di spazio, si provvide a ridurre le dimensioni della stanza principale. Su appositi pannelli esposti a parete sono state parzialmente ricomposte le pitture che abbellivano la domus, rinvenute nello scavo in numerosissimi frammenti: si tratta di un ciclo pittorico di notevole qualità artistica il cui schema decorativo fa riferimento al cosiddetto Terzo Stile pompeiano. L’intera partitura decorativa era impostata sulla rappresentazione di miti e simboli del ciclo dionisiaco, con una megalografia che ritrae la sacra unione di Dioniso e Arianna e la disputa tra Eros e Pan. All’interno delle vetrine, allestite lungo il percorso, sono esposti i reperti restituiti dall’indagine dell’area - appartenenti all’età romana e alle successive epoche medievale e rinascimentale - oltre che altri manufatti pertinenti ai siti archeologici di Ocriticum e del territorio peligno: frammenti di maioliche, monete, oggetti decorativi e d’uso quotidiano.
L’abbazia sorse intorno alla metà del XIII secolo alle pendici del Monte Morrone, ad opera del futuro Papa Celestino V, con l’ampliamento di una cappella preesistente dedicata a Santa Maria del Morrone e successivamente, verso il 1268, con la costruzione di una nuova chiesa intitolata allo Spirito Santo e dell’annesso convento. Nel 1293 divenne sede dell’Abate generale dell’Ordine dei Celestini, fondato dallo stesso Fra’ Pietro; l’anno seguente, con l’ascesa di quest’ultimo al soglio pontificio, il monastero ricevette molti privilegi e proprietà, acquisendo notevole importanza. Nel XVI secolo il complesso venne restaurato ed ampliato e nel 1596 fu dotato di un campanile a pianta quadrata, con finestre bifore sui quattro lati nella parte sommitale e un coronamento a cuspide piramidale. Danni ingenti derivarono dal terremoto del 1706, a seguito del quale furono operati mutamenti consistenti e probabilmente ulteriori ampliamenti fino al 1730, come documenta la data visibile sull’orologio della chiesa. Agli inizi dell’Ottocento, con la soppressione della Congregazione dei Celestini, ha inizio la lunga sequenza delle diverse destinazioni d’uso del monastero, trasformato prima in Real collegio dei tre Abruzzi, poi in Ospizio, quindi in Real Casa dei Mendici dei tre Abruzzi, fino ad approdare, nel 1868, al suo definitivo utilizzo come Istituto di pena, che ne ha determinato notevoli cambiamenti per adeguarlo alla specifica funzione, cessata solo nel 1993. Dal 1998 l’abbazia è stata assegnata al Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è sede delle Soprintendenze regionali B.A.P. e B.S.A.E. e dell’Ente Parco Nazionale della Majella.
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Abbazia di Santo Spirito del Morrone
28 Via Badia
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L’abbazia sorse intorno alla metà del XIII secolo alle pendici del Monte Morrone, ad opera del futuro Papa Celestino V, con l’ampliamento di una cappella preesistente dedicata a Santa Maria del Morrone e successivamente, verso il 1268, con la costruzione di una nuova chiesa intitolata allo Spirito Santo e dell’annesso convento. Nel 1293 divenne sede dell’Abate generale dell’Ordine dei Celestini, fondato dallo stesso Fra’ Pietro; l’anno seguente, con l’ascesa di quest’ultimo al soglio pontificio, il monastero ricevette molti privilegi e proprietà, acquisendo notevole importanza. Nel XVI secolo il complesso venne restaurato ed ampliato e nel 1596 fu dotato di un campanile a pianta quadrata, con finestre bifore sui quattro lati nella parte sommitale e un coronamento a cuspide piramidale. Danni ingenti derivarono dal terremoto del 1706, a seguito del quale furono operati mutamenti consistenti e probabilmente ulteriori ampliamenti fino al 1730, come documenta la data visibile sull’orologio della chiesa. Agli inizi dell’Ottocento, con la soppressione della Congregazione dei Celestini, ha inizio la lunga sequenza delle diverse destinazioni d’uso del monastero, trasformato prima in Real collegio dei tre Abruzzi, poi in Ospizio, quindi in Real Casa dei Mendici dei tre Abruzzi, fino ad approdare, nel 1868, al suo definitivo utilizzo come Istituto di pena, che ne ha determinato notevoli cambiamenti per adeguarlo alla specifica funzione, cessata solo nel 1993. Dal 1998 l’abbazia è stata assegnata al Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è sede delle Soprintendenze regionali B.A.P. e B.S.A.E. e dell’Ente Parco Nazionale della Majella.
Conosciuto anche con il nome di San Pietro, è posto sul monte Morrone, a 1379 m s.l.m., sulla stessa direttrice dell’Eremo di Sant’Onofrio; si raggiunge partendo dalla località Colle delle Vacche e percorrendo un sentiero che sale attraverso un bosco di pini. L’edificio originario fu eretto probabilmente nella seconda metà del XIII secolo per volere di Pietro Angelerio che, secondo testimonianze tratte dal suo processo di canonizzazione, vi si ritirò più volte in meditazione e preghiera nel corso degli anni: è plausibile, infatti, che fosse un romitorio. Le testimonianze a tal proposito sono però discordanti, in quanto per alcuni si trasformò successivamente in cenobio: vero è che intorno alla piccola chiesa non vi sono tracce di mura o resti di costruzioni di qualunque tipo ed essa è di dimensioni troppo ridotte per poter ospitare una sia pur piccola comunità di monaci; nel XVI secolo viene definita “cappelluccia”. La chiesetta attuale è il risultato di un intervento di ricostruzione del XVII secolo; fino agli anni Venti del ‘900 era in migliori condizioni di conservazione ed ancora abitata da un eremita, che però non risulta più presente già nel 1924.
Hermitage of the Holy Cross (St. Peter) Morrone
Conosciuto anche con il nome di San Pietro, è posto sul monte Morrone, a 1379 m s.l.m., sulla stessa direttrice dell’Eremo di Sant’Onofrio; si raggiunge partendo dalla località Colle delle Vacche e percorrendo un sentiero che sale attraverso un bosco di pini. L’edificio originario fu eretto probabilmente nella seconda metà del XIII secolo per volere di Pietro Angelerio che, secondo testimonianze tratte dal suo processo di canonizzazione, vi si ritirò più volte in meditazione e preghiera nel corso degli anni: è plausibile, infatti, che fosse un romitorio. Le testimonianze a tal proposito sono però discordanti, in quanto per alcuni si trasformò successivamente in cenobio: vero è che intorno alla piccola chiesa non vi sono tracce di mura o resti di costruzioni di qualunque tipo ed essa è di dimensioni troppo ridotte per poter ospitare una sia pur piccola comunità di monaci; nel XVI secolo viene definita “cappelluccia”. La chiesetta attuale è il risultato di un intervento di ricostruzione del XVII secolo; fino agli anni Venti del ‘900 era in migliori condizioni di conservazione ed ancora abitata da un eremita, che però non risulta più presente già nel 1924.
La porta sud di accesso alla città medievale era inserita nella seconda cinta muraria, edificata tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo per far fronte alle nuove esigenze difensive dell’abitato urbano conseguenti all’imponente crescita demografica e all’espansione urbanistica che Sulmona aveva avuto durante il periodo della dominazione sveva (sec. XIII). Denominata in precedenza “Porta Nova”, forse perché posta sulla direttrice dell’antica “Via Nova”, difendeva l’ingresso sud della città ed era posta sull’importante asse stradale di collegamento con Napoli, capitale del Regno.
Porta Napoli
6 Corso Ovidio
La porta sud di accesso alla città medievale era inserita nella seconda cinta muraria, edificata tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo per far fronte alle nuove esigenze difensive dell’abitato urbano conseguenti all’imponente crescita demografica e all’espansione urbanistica che Sulmona aveva avuto durante il periodo della dominazione sveva (sec. XIII). Denominata in precedenza “Porta Nova”, forse perché posta sulla direttrice dell’antica “Via Nova”, difendeva l’ingresso sud della città ed era posta sull’importante asse stradale di collegamento con Napoli, capitale del Regno.
Il nome attuale della porta è la forma italianizzata dell’ originaria denominazione Johannis Bonorum Hominum, sicuramente derivata da un personaggio che aveva provveduto al suo rifacimento o che abitava nei pressi, come è stato riscontrato più volte per altre porte cittadine. Il varco si apre a nord-ovest dell’antico recinto - sull’angolo opposto a Porta Japasseri - e segnava anche l’ingresso in città della via Numicia. La sua prima costruzione risale all’Alto Medioevo, anche se fu probabilmente ripristinata in forme gotiche intorno al Trecento, all’epoca della realizzazione della seconda cinta muraria e delle nuove porte che sostituirono nella funzione quelle precedenti, ad eccezione di Porta Bonomini e Porta Japasseri, ubicate nei tratti di mura rimasti efficienti. Posta alla sommità di una ripida rampa di accesso, la porta conserva i soli piedritti in pietra - risalenti all’ultima delle molte ricostruzioni subite - che si datano intorno al 1708, in un momento di poco successivo al terribile terremoto di due anni prima. Fino a quella data questo ingresso alla città presentava l’arco a sesto acuto comune alla maggior parte delle altre porte cittadine; esso fu sostituito con un architrave ligneo, rimasto in sede fino alla fine degli anni ’80 del Novecento. Sul lato sinistro è visibile internamente l’anello di pietra in cui era collocato il cardine superiore di una delle due ante di chiusura; sullo stesso lato la porzione di mura adiacente alla porta è stata inglobata in un’abitazione privata, palazzo De Meis, mentre dalla parte opposta se ne conserva un tratto in opera incerta, perpendicolare alla porta stessa.
Porta Bonomini
Discesa Porta Romana
Il nome attuale della porta è la forma italianizzata dell’ originaria denominazione Johannis Bonorum Hominum, sicuramente derivata da un personaggio che aveva provveduto al suo rifacimento o che abitava nei pressi, come è stato riscontrato più volte per altre porte cittadine. Il varco si apre a nord-ovest dell’antico recinto - sull’angolo opposto a Porta Japasseri - e segnava anche l’ingresso in città della via Numicia. La sua prima costruzione risale all’Alto Medioevo, anche se fu probabilmente ripristinata in forme gotiche intorno al Trecento, all’epoca della realizzazione della seconda cinta muraria e delle nuove porte che sostituirono nella funzione quelle precedenti, ad eccezione di Porta Bonomini e Porta Japasseri, ubicate nei tratti di mura rimasti efficienti. Posta alla sommità di una ripida rampa di accesso, la porta conserva i soli piedritti in pietra - risalenti all’ultima delle molte ricostruzioni subite - che si datano intorno al 1708, in un momento di poco successivo al terribile terremoto di due anni prima. Fino a quella data questo ingresso alla città presentava l’arco a sesto acuto comune alla maggior parte delle altre porte cittadine; esso fu sostituito con un architrave ligneo, rimasto in sede fino alla fine degli anni ’80 del Novecento. Sul lato sinistro è visibile internamente l’anello di pietra in cui era collocato il cardine superiore di una delle due ante di chiusura; sullo stesso lato la porzione di mura adiacente alla porta è stata inglobata in un’abitazione privata, palazzo De Meis, mentre dalla parte opposta se ne conserva un tratto in opera incerta, perpendicolare alla porta stessa.
La porta si apre lungo il tratto occidentale della seconda cinta muraria, proprio in fondo alla strada che costeggia il fianco sinistro della chiesa da cui prende il nome ,e attorno alla quale, all’inizio del Trecento, si venne formando l’omonimo borgo, inserito nel perimetro dell’abitato attraverso l’ampliamento della cerchia delle mura antiche, che incluse anche gli altri borghi sorti nel frattempo a ridosso di esse. Non compare nelle vedute antiche della città, ma è citata nel Rituale delle Rogazioni dell’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo. In passato fu denominata anche Porta Piscitelli e, nel XVIII secolo, Porta Petrella, probabilmente dal nome del vicecurato della vicina chiesa, Domenico Petrella che abitava nei pressi.
Porta di Santa Maria della Tomba
6 Piazza Plebiscito
La porta si apre lungo il tratto occidentale della seconda cinta muraria, proprio in fondo alla strada che costeggia il fianco sinistro della chiesa da cui prende il nome ,e attorno alla quale, all’inizio del Trecento, si venne formando l’omonimo borgo, inserito nel perimetro dell’abitato attraverso l’ampliamento della cerchia delle mura antiche, che incluse anche gli altri borghi sorti nel frattempo a ridosso di esse. Non compare nelle vedute antiche della città, ma è citata nel Rituale delle Rogazioni dell’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo. In passato fu denominata anche Porta Piscitelli e, nel XVIII secolo, Porta Petrella, probabilmente dal nome del vicecurato della vicina chiesa, Domenico Petrella che abitava nei pressi.
La porta è situata presso l’angolo sud-occidentale della prima cinta muraria altomedievale ed è l’unica in discreto stato di conservazione tra quelle del primitivo circuito; fu in seguito rafforzata dall’apertura di Porta Sant’Antonio, posta alla base della rampa di accesso nel più ampio recinto della seconda cerchia di mura, costruita tra la fine del Duecento e gli inizi del secolo successivo, per includere nel nucleo abitato anche i borghi extramuranei sorti nel frattempo. La prima menzione della porta è in un documento del 1196; in un precedente documento del 1109 compaiono invece dei personaggi conosciuti con il soprannome Amabile e, successivamente, nell’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo, si trova menzione, nel 1320, di un canonico Amabile de’ figli Amabili. Tale nome o soprannome è quindi attestato nella città e potrebbe essere all’origine della denominazione della porta, letteralmente Filiorum Amabilis, poi contratta in Filiamabili. È probabile che i figli di Amabile si siano assunti l’onere di lavori di ripristino e manutenzione della porta; ci sono infatti altri esempi a Sulmona di porte il cui nome si lega a personaggi in qualche modo coinvolti nella loro costruzione o, più probabilmente, in restauri o altri interventi. Più tardi l’accesso si chiamerà anche “di Donata Sciamuel”, “delle capre” e, in epoche più recenti, “Mancini”, dal cognome di una famiglia abitante nei pressi.
Porta Filiamabili
9 Via Amendola
La porta è situata presso l’angolo sud-occidentale della prima cinta muraria altomedievale ed è l’unica in discreto stato di conservazione tra quelle del primitivo circuito; fu in seguito rafforzata dall’apertura di Porta Sant’Antonio, posta alla base della rampa di accesso nel più ampio recinto della seconda cerchia di mura, costruita tra la fine del Duecento e gli inizi del secolo successivo, per includere nel nucleo abitato anche i borghi extramuranei sorti nel frattempo. La prima menzione della porta è in un documento del 1196; in un precedente documento del 1109 compaiono invece dei personaggi conosciuti con il soprannome Amabile e, successivamente, nell’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo, si trova menzione, nel 1320, di un canonico Amabile de’ figli Amabili. Tale nome o soprannome è quindi attestato nella città e potrebbe essere all’origine della denominazione della porta, letteralmente Filiorum Amabilis, poi contratta in Filiamabili. È probabile che i figli di Amabile si siano assunti l’onere di lavori di ripristino e manutenzione della porta; ci sono infatti altri esempi a Sulmona di porte il cui nome si lega a personaggi in qualche modo coinvolti nella loro costruzione o, più probabilmente, in restauri o altri interventi. Più tardi l’accesso si chiamerà anche “di Donata Sciamuel”, “delle capre” e, in epoche più recenti, “Mancini”, dal cognome di una famiglia abitante nei pressi.
Il nome attuale della porta è la volgarizzazione della originaria denominazione Johannis Passarum, sicuramente derivata da un personaggio che aveva provveduto al suo rifacimento o che vi abitava nei pressi, come è stato riscontrato più volte per altre porte cittadine. Il varco si apre a nord-est dell’antico recinto e fu il solo, insieme a Porta Bonomini, situata all’angolo opposto, a mantenere la sua funzione anche dopo l’ampliamento della città in epoca trecentesca con la costruzione della seconda cinta muraria e delle relative nuove porte. Non è documentata in tempi anteriori al XIII secolo ma, come gli altri ingressi del primo recinto, è certamente più antica. Nel 1521 pare ne fosse stata decisa la chiusura e l’università, d’accordo con i membri dell’opera della città, alienò parte della via che vi dava accesso a favore di un certo Domenico di Cola di Cansano per la somma di due ducati; non sappiamo però se tale proposito fu messo in pratica, poiché è menzionata anche in epoche successive.
Porta Japasseri
38 Via Vella
Il nome attuale della porta è la volgarizzazione della originaria denominazione Johannis Passarum, sicuramente derivata da un personaggio che aveva provveduto al suo rifacimento o che vi abitava nei pressi, come è stato riscontrato più volte per altre porte cittadine. Il varco si apre a nord-est dell’antico recinto e fu il solo, insieme a Porta Bonomini, situata all’angolo opposto, a mantenere la sua funzione anche dopo l’ampliamento della città in epoca trecentesca con la costruzione della seconda cinta muraria e delle relative nuove porte. Non è documentata in tempi anteriori al XIII secolo ma, come gli altri ingressi del primo recinto, è certamente più antica. Nel 1521 pare ne fosse stata decisa la chiusura e l’università, d’accordo con i membri dell’opera della città, alienò parte della via che vi dava accesso a favore di un certo Domenico di Cola di Cansano per la somma di due ducati; non sappiamo però se tale proposito fu messo in pratica, poiché è menzionata anche in epoche successive.
Porta Molina è situata lungo il tratto occidentale della cinta muraria altomedievale, tra le porte Bonomini e Filiamabili; era un accesso secondario o postierla, probabilmente da identificare in un primo momento con la “posterula ardengi” menzionata In un documento del 1168 contenuto nel Chronicon Casauriense, altrimenti sconosciuta, non essendo attestata un’altra porta di servizio in un diverso settore delle mura. Peraltro la figura del presbitero Johannes Ardengi, a cui potrebbe risalire la denominazione della posterula, è citata nell’Instrumentarium, una delle due parti di cui si compone il Chronicon. Nelle fonti antiche, comunque non anteriori al XIII secolo, è detta di Sant’Andrea, dal titolo della vicina chiesa, risalente all’incirca alla metà del XII secolo e poi crollata con il terremoto del 1706; questa, a sua volta, era conosciuta come Sant’Andrea della Postergola o “intus”, anche per distinguerla da un’altra chiesa dedicata allo stesso Santo che si trovava nel settore settentrionale della città, fuori delle mura, alla quale era stato dato l’appellativo di “de fore” o “extra portam”. In ogni caso, dal momento che la postergola è pertinente alla prima cerchia muraria, bisogna presupporre che in origine avesse una denominazione diversa da quella di Sant’Andrea, subentrata all’epoca della costruzione della chiesa. Il nome con il quale la porta è oggi conosciuta potrebbe derivare infine dal vicino palazzo dei baroni Molina o dalla sua funzione di accesso ai sottostanti mulini dislocati lungo il vicino fiume Gizio.
Porta Bonomini
Discesa Porta Romana
Porta Molina è situata lungo il tratto occidentale della cinta muraria altomedievale, tra le porte Bonomini e Filiamabili; era un accesso secondario o postierla, probabilmente da identificare in un primo momento con la “posterula ardengi” menzionata In un documento del 1168 contenuto nel Chronicon Casauriense, altrimenti sconosciuta, non essendo attestata un’altra porta di servizio in un diverso settore delle mura. Peraltro la figura del presbitero Johannes Ardengi, a cui potrebbe risalire la denominazione della posterula, è citata nell’Instrumentarium, una delle due parti di cui si compone il Chronicon. Nelle fonti antiche, comunque non anteriori al XIII secolo, è detta di Sant’Andrea, dal titolo della vicina chiesa, risalente all’incirca alla metà del XII secolo e poi crollata con il terremoto del 1706; questa, a sua volta, era conosciuta come Sant’Andrea della Postergola o “intus”, anche per distinguerla da un’altra chiesa dedicata allo stesso Santo che si trovava nel settore settentrionale della città, fuori delle mura, alla quale era stato dato l’appellativo di “de fore” o “extra portam”. In ogni caso, dal momento che la postergola è pertinente alla prima cerchia muraria, bisogna presupporre che in origine avesse una denominazione diversa da quella di Sant’Andrea, subentrata all’epoca della costruzione della chiesa. Il nome con il quale la porta è oggi conosciuta potrebbe derivare infine dal vicino palazzo dei baroni Molina o dalla sua funzione di accesso ai sottostanti mulini dislocati lungo il vicino fiume Gizio.
La porta si apre lungo il lato orientale della cinta muraria trecentesca - sulla strada che conduce a Pacentro, da cui il nome - e serviva il borgo omonimo. È da identificare con ogni probabilità con la Porta Orientis, come sembrerebbe dedursi dal Rituale delle Rogazioni conservato presso l’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo che, alla carta 53, riporta la dicitura Porta Pacentrana su di una evidente cancellatura, apportata presumibilmente per sostituire la denominazione originaria di Porta Orientis che compare invece in altri punti del medesimo manoscritto. Sostituì nella funzione Porta Manaresca, inclusa nella prima cinta muraria, allorché tra il finire del XIII secolo e l’inizio del successivo fu realizzato l’ampliamento della cerchia difensiva per inglobare nel nucleo dell’abitato i nuovi borghi sorti a ridosso delle antiche mura. Attualmente si presenta incorporata in fabbricati di proprietà privata, che ne hanno utilizzato il piano superiore, un tempo adibito a sala d’armi.
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Posta Pacentrana
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La porta si apre lungo il lato orientale della cinta muraria trecentesca - sulla strada che conduce a Pacentro, da cui il nome - e serviva il borgo omonimo. È da identificare con ogni probabilità con la Porta Orientis, come sembrerebbe dedursi dal Rituale delle Rogazioni conservato presso l’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo che, alla carta 53, riporta la dicitura Porta Pacentrana su di una evidente cancellatura, apportata presumibilmente per sostituire la denominazione originaria di Porta Orientis che compare invece in altri punti del medesimo manoscritto. Sostituì nella funzione Porta Manaresca, inclusa nella prima cinta muraria, allorché tra il finire del XIII secolo e l’inizio del successivo fu realizzato l’ampliamento della cerchia difensiva per inglobare nel nucleo dell’abitato i nuovi borghi sorti a ridosso delle antiche mura. Attualmente si presenta incorporata in fabbricati di proprietà privata, che ne hanno utilizzato il piano superiore, un tempo adibito a sala d’armi.
La porta si apre lungo il tratto orientale della seconda cinta muraria, che tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo estese il perimetro dell’abitato ad includere i borghi sorti a ridosso della primitiva cerchia e, nello specifico, il Borgo Pacentrano, al cui estremo meridionale è ubicato il varco. Gli studiosi non sono concordi circa la sua datazione: una tesi accoglie come plausibile la data 1755, presente in uno stemma apposto poco al di sopra della porta, ritenendo che questa sia stata aperta dopo il terremoto del 1706, presumibilmente intorno alla metà del secolo; una diversa opinione rileva nell’incisione dello Hogenberg, raffigurante la città di Sulmona (1572-1618), l’esistenza di un accesso minore che si apriva nel Borgo Pacentrano, rappresentato a est di Porta Nuova – l’attuale Porta Napoli – forse da identificare con questo, suffragando in tal modo l’ipotesi della sua esistenza in epoca precedente. A partire dal Cinquecento è pure attestato il nomignolo Saccoccia, attribuito ad una famiglia abitante nei pressi e da cui derivò presumibilmente il nome della porta. Manca qualsiasi documentazione relativa a tempi più antichi, ma l’apertura del varco è da ritenersi certamente anteriore alla data incisa sullo stemma, in quanto, benché non definito con l’appellativo “Saccoccia”, esso è raffigurato anche nel disegno del complesso conventuale di Santa Chiara tratto dal Catasto del monastero, redatto nel 1704-5 e conservato nell’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo.
Porta Saccoccia
52-68 Via Probo Mariano
La porta si apre lungo il tratto orientale della seconda cinta muraria, che tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo estese il perimetro dell’abitato ad includere i borghi sorti a ridosso della primitiva cerchia e, nello specifico, il Borgo Pacentrano, al cui estremo meridionale è ubicato il varco. Gli studiosi non sono concordi circa la sua datazione: una tesi accoglie come plausibile la data 1755, presente in uno stemma apposto poco al di sopra della porta, ritenendo che questa sia stata aperta dopo il terremoto del 1706, presumibilmente intorno alla metà del secolo; una diversa opinione rileva nell’incisione dello Hogenberg, raffigurante la città di Sulmona (1572-1618), l’esistenza di un accesso minore che si apriva nel Borgo Pacentrano, rappresentato a est di Porta Nuova – l’attuale Porta Napoli – forse da identificare con questo, suffragando in tal modo l’ipotesi della sua esistenza in epoca precedente. A partire dal Cinquecento è pure attestato il nomignolo Saccoccia, attribuito ad una famiglia abitante nei pressi e da cui derivò presumibilmente il nome della porta. Manca qualsiasi documentazione relativa a tempi più antichi, ma l’apertura del varco è da ritenersi certamente anteriore alla data incisa sullo stemma, in quanto, benché non definito con l’appellativo “Saccoccia”, esso è raffigurato anche nel disegno del complesso conventuale di Santa Chiara tratto dal Catasto del monastero, redatto nel 1704-5 e conservato nell’Archivio della Cattedrale di S. Panfilo.
La porta si apre lungo il tratto occidentale della seconda cinta muraria, che tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo estese il perimetro dell’abitato per includere i borghi sorti a ridosso della primitiva cerchia e - nello specifico - il borgo Sant’Agata. Essa sostituì nella funzione la Porta Filiamabili, tuttora esistente, che chiudeva il nucleo antico del primo recinto; da questa ereditò per un certo periodo la denominazione di “porta delle capre” - una delle tante che la suddetta porta aveva assunto nel corso dei secoli - e, nel Seicento, si chiamò anche porta del Crocifisso. La parte superiore, dopo essere caduta in disuso come alloggio permanente del Corpo di Guardia, fu adibita ad uso privato, forse agli inizi del Settecento: inizialmente per usurpazione, poi a fronte di un canone annuo in favore del Comune. Da una deliberazione decurionale del 1816 si evince infatti che Domenico Granata, gestore dell’antichissima cartiera cittadina, aveva ridotto ad abitazione questa porzione della porta contro il pagamento di due quinterni di carta ed aveva inoltre apposto l’arma della propria casa, consistente in tre granate, al di sopra dell’arco; nell’atto veniva sancito l’obbligo di rimuovere lo stemma di famiglia e quattro anni dopo il canone annuo veniva portato ad otto ducati. Ciononostante lo stemma è ancora oggi in situ. Il terremoto del 1706 provocò il crollo dell’attiguo torrione e presumibilmente danneggiò anche la porta, che fu forse ribassata in quest’epoca con l’inserzione di una lunetta.
Porta Sant'Antonio
57 Via Manlio D'Eramo
La porta si apre lungo il tratto occidentale della seconda cinta muraria, che tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo successivo estese il perimetro dell’abitato per includere i borghi sorti a ridosso della primitiva cerchia e - nello specifico - il borgo Sant’Agata. Essa sostituì nella funzione la Porta Filiamabili, tuttora esistente, che chiudeva il nucleo antico del primo recinto; da questa ereditò per un certo periodo la denominazione di “porta delle capre” - una delle tante che la suddetta porta aveva assunto nel corso dei secoli - e, nel Seicento, si chiamò anche porta del Crocifisso. La parte superiore, dopo essere caduta in disuso come alloggio permanente del Corpo di Guardia, fu adibita ad uso privato, forse agli inizi del Settecento: inizialmente per usurpazione, poi a fronte di un canone annuo in favore del Comune. Da una deliberazione decurionale del 1816 si evince infatti che Domenico Granata, gestore dell’antichissima cartiera cittadina, aveva ridotto ad abitazione questa porzione della porta contro il pagamento di due quinterni di carta ed aveva inoltre apposto l’arma della propria casa, consistente in tre granate, al di sopra dell’arco; nell’atto veniva sancito l’obbligo di rimuovere lo stemma di famiglia e quattro anni dopo il canone annuo veniva portato ad otto ducati. Ciononostante lo stemma è ancora oggi in situ. Il terremoto del 1706 provocò il crollo dell’attiguo torrione e presumibilmente danneggiò anche la porta, che fu forse ribassata in quest’epoca con l’inserzione di una lunetta.
Frutto di una convenzione tra vari Enti ed istituzioni tra cui Diocesi di Sulmona-Valva, Comune di Sulmona e Soprintendenza e allestito alla fine del 2002 nell’ex-convento di Santa Chiara, il museo occupa tre diversi ambienti, distribuiti intorno al chiostro: la cappella interna per le monache di clausura - che da qui potevano, tramite grate, partecipare alle cerimonie liturgiche nella chiesa - una sala minore e l’ex-refettorio. In esso sono confluite opere databili tra il XII e il XIX secolo - provenienti dalla cattedrale e da altre chiese cittadine e della Diocesi - che spaziano da dipinti su tavola e su tela a reperti lapidei, dalle sculture lignee alle oreficerie, dai codici ai manufatti tessili, testimonianze spesso nascoste dell’intensa vita spirituale, culturale ed artistica del territorio. In una ulteriore sala è collocato un Presepe artistico in esposizione permanente.
Museo della Diocesi Valva Sulmona
1 Piazza Giuseppe Garibaldi
Frutto di una convenzione tra vari Enti ed istituzioni tra cui Diocesi di Sulmona-Valva, Comune di Sulmona e Soprintendenza e allestito alla fine del 2002 nell’ex-convento di Santa Chiara, il museo occupa tre diversi ambienti, distribuiti intorno al chiostro: la cappella interna per le monache di clausura - che da qui potevano, tramite grate, partecipare alle cerimonie liturgiche nella chiesa - una sala minore e l’ex-refettorio. In esso sono confluite opere databili tra il XII e il XIX secolo - provenienti dalla cattedrale e da altre chiese cittadine e della Diocesi - che spaziano da dipinti su tavola e su tela a reperti lapidei, dalle sculture lignee alle oreficerie, dai codici ai manufatti tessili, testimonianze spesso nascoste dell’intensa vita spirituale, culturale ed artistica del territorio. In una ulteriore sala è collocato un Presepe artistico in esposizione permanente.